malato terminale

Il difficile compito di accompagnare il paziente sino alla fine

Oggi è sempre più frequente il caso di pazienti che, rivoltisi al medico per averne aiuto, non trovano in realtà risposta ai loro veri problemi. Pensiamo, ad esempio, ad un soggetto con una malattia neoplastica in fase avanzata. L’atteggiamento classico del medico è di tenere il paziente parzialmente all’oscuro sulla sua reale malattia, di praticare il più recente schema chemioterapico (che probabilmente aumenterà solo di qualche mese la sopravvivenza) e di allargare le braccia di fronte ai parenti che vorrebbero si facesse di più. Hanno, in verità, ragione sia i parenti, che non si rassegnano alla malattia del congiunto, sia il medico che dichiara la sua impotenza. La formazione mentale acquisita, infatti, non consente spesso di vedere, nell’occasione suddetta, altri interventi che sarebbero veramente utili, quali, ad esempio, aiutare il sofferente a morire con serenità ed aiutare i parenti a convivere con una persona ormai senza speranza di vita. Si avrà così che il nevrotico continuerà ad essere inviato da vari specialisti e consigliato ad eseguire esami su esami per poi concludersi il tutto con l’assunzione di ansiolitici od antidepressivi, senza che vengano lentamente e pazientemente evidenziati ed affrontati i suoi reali e profondi problemi. In più, la tossicodipendenza sarà risolta con ricoveri a volte coatti e con carico di sedativi senza precisi ed organizzati approcci psico-sociali che, soli, possono giovare al soggetto restituendolo ad una vita normale. Non ultimo, la presenza in famiglia dell’anziano demente, che sconvolge giorno e notte l’equilibrio e la pace dei familiari, continuerà ad esser ignorata senza alcun consiglio sanitario autorevole che proponga il ricovero in ambiente idoneo per cronici, con assunzione della responsabilità morale di tale scelta, considerata dai parenti impietosa. L’intervento terapeutico medico è dunque, nella maggioranza dei casi, quello appreso all’università, medico (tramite farmaco) o chirurgico (tramite bisturi), entrambi volti a ridurre o abolire le alterazioni fisiopatologiche o anatomiche del paziente. Spesso però gli interventi terapeutici così concepiti non risultano adeguati, creando sfiducia della gente nell’operatore sanitario e crisi d’identità del medico che si accorge della inadeguatezza delle sue risposte e del suo ruolo di consigliere di fiducia. Pubblicazioni congressuali di ricerche (dense di numeri e dati statistici), confronti sperimentali di effetti tra farmaco e farmaco e tra farmaco e placebo (preparato privo di effetti), ed infine stress legato alla professione sono tutti elementi di scienza esatta. In questo modo, però, il medico si allontana dalle scienze umanistiche (psicologia,sociologia, antropologia), rinfocolando la crisi. La sindrome da burnout, oggi tanto frequente, è, infatti, l’esito patologico di un processo stressante che colpisce le persone che esercitano professioni d’aiuto (sanitari, parasanitari, psicologi, etc), quando queste attività non rispondono adeguatamente ai carichi eccessivi di stress che comportano. Conseguenze pratiche di tale stress sono il deterioramento dell’impegno lavorativo, il deterioramento emozionale, il disadattamento al proprio lavoro, e la presenza di sanitari disillusi, senza creatività, emigranti verso altri interessi(es. la politica), e soprattutto privi di energia vitale da infondere ai propri malati. Questo quadro così fosco e pessimistico sembrerebbe non lasciare vie di scampo né al medico né ai pazienti. Oggi, in una società composta da un gran numero di anziani, un’influenza, un rialzo pressorio, un’intossicazione alimentare, una frattura o un improvviso e passeggero dolore al petto, (da non ascrivere ad un infarto,) possono scatenare ansia e depressione più gravi della stessa patologia diagnosticata. In questi casi, il rassicurante conforto chiarificatore del medico di fiducia svolgono una funzione se non superiore almeno pari a quella terapeutica prescritta. Riprendo l’esempio della neoplasia in fase avanzata. In fase acuta, il neoplastico può essere relativamente facile da gestire (intervento, chemioterapia, radioterapia, etc). Quando però il paziente prende coscienza che la malattia, nonostante le cure, non guarisce, ma che anzi si aggrava, allora diviene difficile per il medico gestirla in una cultura, come la nostra, che non accetta il dolore e che tende a rimuovere la morte. È, dunque, necessario che qualcuno accompagni il malato fino alla fine, facendogli attraversare quelle fasi di iniziale incredulità,di successiva ribellione ed infine di rassegnazione con graduale distacco dal mondo esterno. In un mondo sempre più laicizzato dovremmo, insomma, pensare agli ultimi giorni della nostra vita ed alla morte come il momento culminante della nostra esistenza, quando non si perde nulla, ma ci si ritorna a disperdere nell’energia da cui siamo nati nell’incessante divenire che coinvolge tutto l’universo. Anche in questo caso non ci sono verità precostituite, ogni paziente ha le sue difese psicologiche di fronte alla malattia mortale. Il nostro compito, quali operatori inseriti nella vita fisica e psichica del malato, dovrebbe essere quello di intuire tali difese, potenziarle, suggerirne di nuove aiutando una maggiore acquisizione di rassegnazione e serenità. Infine, il medico che si accosta ad un malato molto sofferente, se non addirittura terminale, deve anche saper intervenire sui familiari sani aiutandoli a portare a livello di razionale coscienza sensi di colpa immotivati. Questi ultimi portano a rincorrere a specialisti o a costose indagini non utili al malato, ma che soltanto compensano nei familiari un “bisogno di fare” spesso sterile e lontano da ogni obiettiva valutazione.

Dott. Giardina Gaetano
Dirigente Chirurgo Emerito

di Dott. Gaetano Giardina

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