MALATO

La cura, “desiderio e speranza” dell’ammalato nella società contemporanea

La cura di noi stessi, spesso, è sacrificata da situazioni ed eventi che appaiono importanti nella nostra vita quotidiana, ma in realtà non è così. Molte delle nostre preoccupazioni sono futili e non c’è problema che non possa essere superato. Però, non sempre riusciamo a concentrarci e a rispondere razionalmente, trovando soluzioni adeguate ed immediate al problema che ci si presenta. L’avvento di una malattia rientra in questa casistica, poiché la patologia che colpisce i nostri cari, induce paura, impotenza e sconvolgimento che non possono essere affrontate con efficacia. La cura, quindi, non è un evento semplicemente medico, ma assume una dimensione che va oltre l’aspetto clinico, poiché curarsi significa ascoltarsi, mentre l’incapacità di prendersi cura di se stessi genera sempre sentimenti negativi per tutti.
Dobbiamo addentrarci in modo più specifico verso l’idea di “cura” che sostiene il nostro ruolo e orienta le nostre azioni nella quotidianità. La “cura” consiste in molteplici attività finalizzate a sostenere il benessere, queste vengono espletate non per il soggetto o sul soggetto interlocutore, ma con lui, suscitando la partecipazione attiva a quest’azione, verso un obiettivo di benessere condiviso. Questa centralità della compartecipazione emerge con estrema consapevolezza nelle definizioni proposte. L’idea di “cura” si lega a un lavoro di vicinanza e di ascolto della persona e di coloro che gli stanno accanto, delle loro difficoltà, ma soprattutto delle possibili potenzialità di recupero. Prendersi cura vuol dire ascoltare, “un ascolto partecipe”. Prendersi cura è cercare di guidare la persona ammalata verso una riscoperta delle parti buone, cioè “quelle sane” del suo corpo. Prendersi cura è rendere la persona “consapevole e felice per le cose che riesce a fare e non infelice per quelle in cui non riesce”. Prendersi cura significa cercare di capire e sostenere quello che loro vogliono, a prescindere dalla famiglia, sostenere e filtrare le loro aspettative: un po’ come nella commedia dell’arte ove si cambia maschera a seconda della necessità”. Prendersi cura significa prendere in considerazione la persona nella sua globalità e lavorare sulla malattia per riuscire a reinserirla all’interno della società”. Prendersi cura dell’utente significa essere capaci ad accompagnarlo, nel migliore modo possibile, verso il mondo esterno affinché lui possa sentirsi a suo agio. Significa “far avvicinare la società alla diversità, in quanto il benessere individuale rappresenta un bene sociale. L’incapacità di prendersi cura di se stessi genera sempre, non solo ansia e fatica personale, ma paura e insicurezza a livello collettivo. In questo senso, il ruolo educativo degli operatori sanitari ha, tra le sue funzioni principali, quella di sviluppare collegamenti e comunicazioni. L’operatore, quindi, ha un ruolo centrale, quello di mediatore fra la persona ammalata e il mondo. Quando si pensa all’ammalato, la sensazione è quella di un estremo isolamento intorno a lui. Si percepisce una sorta di barriera nei confronti di tutto, ma con il nostro impegno vedo la possibilità di farli uscire da questo isolamento e aprirli alla collettività. Gli operatori devono essere capaci di stare in equilibrio fra le diverse domande e aspettative provenienti da utente, famiglia, servizi e società. Così, trova la specificità del proprio intervento che si può definire come accompagnamento leggero e costante affinché la persona ammalata venga riconosciuta, a livello sociale, per le sue parti capaci. Il sostegno a un benessere possibile passa attraverso l’instaurarsi di una relazione che aiuti la persona ammalata ad entrare in rapporto con le sue potenzialità partendo da “ciò che è”. La possibilità di un cambiamento nasce da un nostro atteggiamento ri-educativo disponibile ad entrare anche in punta di piedi nel mondo dell’altro, accettando senza preconcetti la situazione personale e familiare dell’utente che è il dato di partenza, spesso duro, con cui ci confrontiamo. La pesantezza delle situazioni con cui ci si confronta fa sì che il senso della cura che si presta lo si ritrovi anche nelle possibilità di alleggerire “questo peso”, questo chiama direttamente in causa il rapporto con la famiglia. Noi operatori sanitari rappresentiamo “la valvola di sfogo per familiari dell’utente che seguiamo”. La famiglia non è mai una variabile neutra, può diventare una risorsa positiva con la funzione di supporto per questo percorso assistenziale, o elemento ibrido che giocando in difesa, incapace di attivarsi come presenza collaborativa. Nell’ambito delle professioni di aiuto e cura, come la nostra, il coinvolgimento relazionale è senza dubbio importante. Diventa essenziale quindi, poter contare su di un gruppo di riferimento che, in modi e tempi diversi a seconda delle scelte organizzative, appoggi gli interventi praticati attraverso la condivisione, lo scambio informativo ed eventuale rielaborazione delle strategie di intervento. Quando questo avviene c’è di sicuro un riscontro positivo da parte degli operatori e il riconoscimento del proprio valore e della propria funzione. Siamo comunque ancora davvero lontani da quell’idea di “essere insieme” per l’ammalato, da quell’alleanza fiduciosa che è alla base di una presa in carico condivisa e percepita da tutte le parti come utile e positiva.
Il nostro lavoro può essere o dovrebbe essere vissuto come un’opportunità di crescita reciproca.
La qualità del nostro operato si innalza se inserita in un circuito di scambio dove chi “aiuta” riceve gratitudine e apprezzamento.
Comunque, aspetto positivo più grande è “L’opportunità di fare il lavoro che faccio”.

Dott.ssa Meli Giovanna
Dott.ssa in Infermieristica
presso Ospedali Riuniti
Villa Sofia-Cervello
Reparto Pneumologia II

di Redazione

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