carcerato

Salute-carcere, un rapporto perverso


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Per parlare di salute in carcere, si dovrebbe considerare la prigione non come un problema di gestione generale, ma come luogo. Qui si svolge la vita, il quotidiano, la storia, gli avvenimenti, dello stesso ordine, ma non uguali, del mondo esterno come lo sciopero della fame e della sete (M. Faucoult). Così facendo, infatti, possono essere svelate le condizioni del soggetto detenuto vivente in un drammatico (e grottesco) paradosso. Quest’ultimo si dipana tra negazione e limitazione della libertà e l’affermazione dei diritti elementari, come può essere la promozione del benessere della persona. Tale paradosso è percepibile, da una parte, nel fatto che il recluso è costretto a modificare la propria identità, perché quella costruita nel mondo esterno è progressivamente erosa dalle graduali privazioni di ciò che la caratterizzano.
Le privazioni dei detenuti riguardano la spersonalizzazione (sinallagma penitenziario), la desocializzazione, la negazione delle parentele e la desessualizzazione.
Dall’altra, nel passaggio della funzione del carcere da istituzionale repressiva (in periodi storici che necessitavano di punizioni esemplari e cruente) a materiale-produttiva del detenuto e, quindi, da un carcere caratterizzato dalla tortura dello spazio a quello caratterizzato dalla tortura, anche, del tempo e della compressione della comunicazione (Vincenzo Ruggiero: Carcere Immateriale).
E’ da sottolineare che lo spazio della detenzione non è tanto quello del carcere, ma quello della cella.
Si produce così un controllo agente non sull’uomo corpo, ma sull’uomo-essere vivente nei suoi aspetti biologici, mentali, relazionali ed affettivi. In questo modo sembrerebbe che la strategia politica di indifferenza può spingere ad un paragone tra lo spazio assegnato a galline ovaiole e al detenuto (2000 cm quadri versus 3 metri quadri), detenute e scrofe che sono impediti a muoversi da “da sistemi di stabulazione individuale” etc.
Lo si può anche intuire, come ricorda Balestrini nel suo “Gli Invisibili”, che le celle e gli spazi interni diventano dei non luoghi in cui si viene ad autorizzare la coesistenza di individualità distinte ed indifferenti creando solitudine (Balestrini: Gli invisibili).
In contemporanea al tempo, viene assegnato la parte retributiva del danno sociale prodotto dal reato e quindi mantenuto in maniera sclerotizzato e cavo, poiché si impone una passività che si viene ad appiattire in un’unica dimensione ossessiva, privo di stimoli e senza alcuna possibilità di iniziativa (Tempo sociale e tempo del carcere di Mosconi).
Si nota che il rapporto spazio-tempo risulta essere rovesciato: a fronte di uno spazio limitato, sempre lo stesso, si sperimenta per un tempo esteso una ossessiva ripetitività dell’esperienza (“Senso poiesi” di Valentina Rizzo).
Oltre modo, il carcere diviene una sorta di ufficio pubblico che punisce con la lentezza dei suoi servizi e obbliga il soggetto alla completa paralisi: domandina, infantilizzazione.
Quanto descritto si ripercuote su ogni aspetto dell’esistenza del detenuto, in quanto l’uomo in carcere è l’elemento passivo che subisce l’ambiente totalizzante circostante, in modo semi-permanente e continuo.
Tale impatto è descritto dalle varie indagini che Laura Baccaro riporta nel suo scritto come sintomi ricorrenti (vertigini, peggioramento della vista, disturbi uditivi, perdita di energia).
Inoltre, questa autrice riporta anche come patologie maggiormente riscontrate (Claustrofobia, irritabilità permanente, depressione, apatia, disturbi psicosomatici, sintomi allucinatori, cardiovascolari, bronchite etc..) e come farmaci maggiormente somministrati (psicofarmaci risposta ad un disagio o strategia di controllo, antidolorifici, antinfiammatori, antiipertensivi, antibiotici).
Detto ciò, da questa lista si evince che necessità non tanto il selezionare le patologie presenti nel carcere e l’individuazione delle aree d’intervento, ma la necessità di una costruzione-ricostruzione della persona attraverso il rispetto e la tutela della dignità umana. Ciò è avvalorata dal principio dell’equivalenza delle cure dell’OMS considerato come inderogabile necessità di garantire ai detenuti le stesse cure, mediche e psicosociali, assicurati ai membri della comunità.
Non si deve esaurire all’equità delle cure ma estendersi all’equità della salute (SEN) riferendosi non alla semplice disponibilità dei servizi sanitari, quanto alla possibilità che anche grazie agli stessi, possa essere raggiunta, da parte dell’utente-detenuto, un effettivo stato di salute rispondente ai suoi reali bisogni. Con questo si vuole significare di riconoscere la salute come costruzione sociale e, quindi, la capacità del soggetto di perseguire la sua idea di salute e mantenere la capacità progettuale nelle scelte di esistenza.
Siamo, allora, in presenza di un insieme la cui funzione di appartenenza non è deterministica, ma probabilistica, aventi estremi 0 (assenza malattia) 1 (presenza malattia).
Tale indeterminatezza si traduce in una presentazione di acuzie e cronicità, nel cui intermezzo si pongono soggetti a rischio.
Conseguenza è, allora, la trasformazione dell’aspetto organizzativo da caratteristica prestazionale (con nessuna capacità di adattamento, rigidità di risposta, ed aspetto istituzionale e gerarchico-medicina come istituzione di controllo sociale) a quello di servizio (Capacità di adattamento, flessibilità della risposta, self organization autopoietico).

Dario Bellomo
Dirigente Asp di Asti

di Dott. Dario Bellomo

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