PROstata

Cancro prostata, le cure con la ‘pre-chemio’ affinché il paziente non arrivi in gravi condizioni.


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Si tratta di un killer silenzioso, a volte difficile da intercettare. In Italia il cancro alla prostata avanza al ritmo di 35 mila nuove diagnosi l’anno e 8 mila morti, il 40% dei pazienti sviluppa metastasi e in 1-2 casi su 10 il tumore viene scoperto in ritardo, quando è in fase avanzata. È la terza neoplasia maligna nella popolazione generale, la più frequente nei maschi adulti per i quali dopo i 50 anni rappresenta oltre il 20% di tutti i tumori diagnosticati. Però, nell’esercito eterogeneo di pazienti si contano almeno 398 mila uomini con una pregressa diagnosi di carcinoma prostatico che, malgrado i progressi terapeutici, in un’elevata percentuale di casi evolve in una forma resistente alla terapia anti-androgenica e diviene metastasi. Perciò, la cura pre-chemio può aiutare molto affinché il paziente non arrivi in gravi condizioni.
Per chi presenta forme metastatiche resistenti alla terapia ormonale e non sottoposte a chemio, l’Aifa autorizza ora l’indicazione pre-chemioterapia di enzalutamide, agente ormonale orale di ultima generazione, già utilizzato dopo il fallimento del trattamento chemioterapico. Un farmaco, frutto della ricerca di Astellas Pharma, che punta direttamente al ‘motore’ di crescita del tumore prostatico, il testosterone, ‘staccando la chiave’ che lo alimenta. Enzalutamide, spiega infatti Sergio Bracarda, direttore dell’Unita operativa complessa di oncologia medica nell’azienda Usl Toscana Sud-Est, Istituto toscano tumori, ospedale San Donato Arezzo, inibisce “in maniera potente il recettore degli androgeni”, cruciale “nel processo di crescita e metastatizzazione della cellula tumorale prostatica. Oltre all’efficacia, cioè a un miglioramento della sopravvivenza, è caratterizzato anche da un buon profilo di tollerabilità”, assicura l’esperto. Se le armi per combattere questo tumore, ‘tallone d’Achille’ maschile, permettono la scelta fra più opzioni – dalla chirurgia alla radioterapia, dall’ormonoterapia alle terapie sistemiche con chemioterapici – uno dei crucci degli specialisti è il ritardo della diagnosi che in certi casi porta alla scoperta della neoplasia quando ha già corso tanto. Gli ostacoli, evidenzia Giacomo Cartenì, direttore dell’Uoc di oncologia medica dell’azienda ospedaliera di rilievo nazionale Antonio Cardarelli di Napoli, sono diversi: “La natura stessa della neoplasia che cresce nella parte più periferica della ghiandola prostatica, il cosiddetto mantello, e non dà segni se non dopo che ha infiltrato la capsula”, elenca l’esperto. E ancora la beffa per cui “molti tumori della prostata non producono Psa, quindi un valore basso non sempre è sinonimo di negatività. Bisogna poi sottolineare una certa carenza di indagini diagnostiche per le quali si dovrebbe attivare la ricerca”. La scelta della terapia, precisa Giaro Conti, primario di Urologia all’ospedale Sant’Anna di Como e segretario generale della Società italiana di urologia oncologica, “dipende dalle caratteristiche del paziente e della malattia. Tutti i trattamenti hanno subito nell’ultimo decennio un’evoluzione importante, contribuendo a ridurre la mortalità e a migliorare la qualità della vita”. La terapia ormonale è uno dei cardini del trattamento farmacologico del carcinoma prostatico perché punta a ridurre gli androgeni, in particolare il testosterone che ha un ruolo importante nella crescita e nell’evoluzione del tumore. Enzalutamide, precisa Conti, “è risultato efficace sia nei pazienti con metastasi ossee che viscerali”. Gli studi “Affirm, condotto su pazienti con tumore prostatico metastatico resistente alla castrazione già trattati con chemio, e Prevail, condotto su pazienti con tumore prostatico metastatico naive alla chemio – aggiunge Cartenì – hanno dimostrato un miglioramento della sopravvivenza globale, un buon profilo di sicurezza e tollerabilità con effetti collaterali scarsi e di poca importanza rispetto ai pazienti trattati con placebo, permettendo un miglioramento della qualità di vita. Enzalutamide ha anche ridotto il rischio di fratture e compressioni del midollo spinale nei pazienti con metastasi ossee. Il farmaco, inoltre, non necessita dell’aggiunta di cortisone” ed è prescrivibile anche ai pazienti che non sono stati sottoposti a blocco androgenico totale. Per mettere sotto scacco la malattia, sottolinea Barbara Jereczek, professore associato di Radioterapia all’università degli Studi di Milano e direttore della Divisione di radioterapia all’Istituto europeo di oncologia (Ieo) nel capoluogo lombardo, serve “lavoro di squadra. Alcuni studi dimostrano che il lavoro multidisciplinare e la collaborazione tra le varie figure specialistiche migliorano del 10% i risultati clinici in oncologia. Anche in Italia come in molti Paesi questa esigenza è stata recepita. Da qui nasce la volontà di creare delle Prostate Cancer Unit simili a quelle già esistenti per il tumore al seno”. Il nucleo di base di un team multidisciplinare, spiega Bracarda, deve essere costituito da “urologo, oncologo medico e oncologo radioterapista. Questo tipo di approccio, però, non è ancora presente su tutto il territorio nazionale, anche se sempre più centri se ne stanno dotando. C’è inoltre bisogno di fare più chiarezza e capire rischi e benefici derivanti dall’uso del Psa ai fini di una diagnosi precoce, mentre la ricerca di base deve fare ancora molto sulla conoscenza dei fattori causali della malattia, sull’individuazione di biomarcatori che possano facilitare sia la diagnosi che la scelta delle migliori cure. E come accade per il tumore al seno, sarebbe necessario avere a disposizione test genetici in grado di identificare il paziente più adatto a terapie più aggressive e quello da trattare in maniera più conservativa”.

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di AdnKronos

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