CARCERI

Rimedi risarcitori da sovraffollamento carcerario, il D.L. n. 92/2014 diviene legge

Con la Legge 11 agosto 2014, n. 117, sono state convertite dal Parlamento le disposizioni varate in tutta fretta dal Governo italiano per dare risposta al fenomeno del sovraffollamento detentivo tanto stigmatizzato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Il costante incremento della popolazione carceraria, che, a sua volta, ha determinato un sensibile deterioramento delle condizioni di vita in molti istituti penitenziari, è all’origine del cospicuo contenzioso che ha visto sedere il nostro Paese sul banco dell’imputato. Questo contenzioso è avvenuto davanti alla Corte europea dei diritti dell’Uomo (CEDU), per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rubricato “proibizione della tortura”. In particolare, tale disposizione prevede espressamente che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Ebbene, a partire dalla ormai famosa sentenza “Torreggiani e altri” dell’8 gennaio 2013, la CEDU ha acclarato la violazione dell’art. 3 della Convenzione, sotto il profilo di un’inammissibile sottoposizione a “trattamenti inumani o degradanti”, come conseguenza della condizione di sovraffollamento carcerario esistente negli istituti penitenziari italiani. Il giudizio sul sistema carcerario italiano che emerge dalla pronuncia, è impietoso. La Corte ha, infatti, rilevato che “la violazione del diritto dei ricorrenti di beneficiare di condizioni detentive adeguate non è la conseguenza di episodi isolati, ma trae origine da un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano, che ha interessato e può interessare ancora in futuro numerose persone”. Proprio in considerazione del carattere strutturale delle violazioni riscontrate, la Corte europea ha quindi ordinato alle autorità nazionali di introdurre, nel termine di un anno dalla data in cui tale sentenza sarebbe divenuta definitiva, un insieme di rimedi “preventivi” e “compensativi”. Tali rimedi devono essere idonei a offrire un’adeguata tutela dei diritti delle persone private della libertà, gravemente incisi dalle particolari condizioni di sovraffollamento carcerario. Con il Decreto legge 26 giugno 2014 n. 92 è stato, quindi, introdotto un rimedio “compensativo” volto, nelle intenzioni del legislatore extra ordinem, a soddisfare il pressante invito formulato dalla Corte europea nella sentenza Torreggiani a prevedere “un ricorso in grado di consentire alle persone incarcerate in condizioni lesive della loro dignità di ottenere una qualsiasi forma di riparazione per la violazione subita”. L’articolo 1 del decreto legge convertito aggiunge un nuovo articolo alla legge sull’Ordinamento penitenziario (art. 35-ter, L. 26 luglio 1975 n. 354). Quest’articolo prevede una forma di riparazione caratterizzata dalla presenza di due diversi meccanismi destinati ad integrarsi al fine di garantire una tutela effettiva rispetto alle situazioni lesive della dignità delle persone detenute. Da un lato è predetta la facoltà di chiedere al Magistrato di Sorveglianza un risarcimento in forma specifica del pregiudizio patito consistente nella riduzione della pena detentiva ancora da espiare nella misura di un giorno per ogni dieci di pena già eseguita. Questa facoltà è prevista per i soggetti ancora detenuti al momento della presentazione del ricorso introduttivo e che siano stati ristretti in condizioni di detenzione tali da violare l’articolo 3 della Convenzione EDU per un periodo di tempo non inferiore a quindici giorni. Questo tipo di risarcimento in forma specifica non è possibile, se il periodo di pena ancora da espiare è tale da non consentire la detrazione dell’intera misura percentuale prima indicata. In questo caso, il Magistrato di Sorveglianza liquiderà altresì al richiedente, in relazione al residuo periodo e a titolo di risarcimento del danno, una somma di denaro pari ad euro 8,00 per ciascuna giornata nella quale questi ha subito il pregiudizio. Nello stesso modo si provvede anche quando il periodo di detenzione espiato in condizioni non conformi ai criteri di cui all’art. 3 della Convenzione EDU sia stato inferiore ai quindici giorni. Dall’altro lato, chi ha subito il suddetto pregiudizio a cagione di una misura cautelare custodiale non computabile nella determinazione della pena da espiare, nonché chi ha terminato di espiare la pena detentiva in carcere, può proporre un’azione legale. Quest’ultima può essere promossa personalmente o tramite difensore munito di procura speciale, di fronte al Tribunale (civile) del capoluogo del distretto in cui hanno la residenza. Il Tribunale decide in composizione monocratica, nelle forme del rito camerale, ai sensi degli artt. 737 e ss. del Codice di procedura civile. Anche, in tal caso, l’ammontare del risarcimento è pari ad euro 8,00 per ogni giorno di detenzione in stato di sovraffollamento. L’azione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere. È previsto, però, con apposita norma transitoria, un termine di decadenza di sei mesi, decorrenti dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto legge. Entro questa data, chi a tale data abbia già cessato di espiare la pena detentiva, o che non si trovino più in stato di custodia cautelare, può ugualmente proporre l’azione per il risarcimento del danno davanti al Tribunale del distretto di residenza. In chiusura, va anche ricordato che il provvedimento legislativo in commento introduce, altresì, modifiche al codice di procedura penale e alle sue disposizioni di attuazione, nonché all’ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria. Di tali innovazioni, la più rappresentativa, sempre in un’ottica deflattiva del sovraffollamento carcerario, è costituita dalla riscrittura del comma 2-bis dell’art. 275, c.p.p. Questo comma, ora, prevede che non può più essere disposta la misura della custodia cautelare, o quella degli arresti domiciliari, qualora il giudice procedente ritenga che la pena detentiva irrogata possa essere contenuta in un massimo di tre anni. Tale divieto, tuttavia, soggiace ad una serie cospicua di deroghe.
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